09/11/2019 | Maria Adelaide Marchesoni

Il libro da collezione

Doppia intervista ai fratelli Gianni e Giuseppe Garrera, collezionisti d'arte e di libri

Per quale motivo si diventa collezionisti?

GIANNI:  In principio per un eccesso di filologia: il desiderio di leggere un libro nella sua prima edizione, così come è apparso la prima volta al mondo. Se fosse stato possibile l’avrei voluto nella copia dattiloscritta, ancor più nella copia manoscritta, dopo di che l’ossessione per l’originale e la diffidenza per ogni forma di riproduzione fanno bramare di possedere l’originale di un disegno o di un dipinto veduto, studiato e ammirato, solamente riprodotto in un volume. Per dirla con una espressione per metà biblica e per metà platonica: non si insegue l’immagine e la somiglianza, ma l’identità, perciò si desidera l’originale e non la copia e la copia della copia.

GIUSEPPE: Direi istintivamente per un desiderio di splendore, ma c’è anche, come identità italiana, una obbedienza e inclinazione insopprimibile a principati, regni, signorie, casate e papati, alla vita principesca della nostra storia. Parlerei sinceramente di un desiderio congenito e diffuso di essere principeschi e di avere un reame che giustifichi i giorni. 

E nel vostro caso? Quali sono le ragioni del vostro collezionare?

GIANNI: L’ideale di accumulare a casa propria, nel proprio mondo terreno, il mondo iperuranio di idee originali e originarie, non avere le ombre dei libri o dei dipinti, ma le luci dell’iperuranio, cioè la verità.

GIUSEPPE: Le ragioni personali del nostro collezionare sono anche legate ad una cronaca sociale ed economica con troppi desideri fantastici infantili non esauditi, fino a rendere visibile e ammirevole e oggetto di collezione gli anni e le letture e le passioni, declinando la propria storia di idee anche in idoli ed esercizi per una collezione che testimoni una nobiltà.

Che cosa collezionate?

GIANNI: Collezioniamo arte moderna e contemporanea, perché riteniamo che sia necessario essere contemporanei ed entrare in rapporto con la contemporaneità faccia a faccia. E se è necessario essere assolutamente contemporanei, allora bisogna farlo sulla propria pelle, anche in senso economico, rischiando economicamente la propria pelle. Se studiamo un autore contemporaneo ad un certo punto desideriamo non possedere solo una sua opera ma, se fosse possibile, tutto il suo lavoro. Ad esempio, la recente mostra, la prima retrospettiva dopo la sua morte, dedicata a Mirella Bentivoglio, contiene tutte opere (una cinquantina di pezzi, che sono comunque solo una parte di ciò che abbiamo collezionato di lei) provenienti dalla nostra collezione. Questo è il caso emblematico del nostro ideale (impossibile) di collezione: raccogliere l’intera vita di un artista o perlomeno i lavori essenziali della sua parabola, in tutte le tappe, compresi gli schizzi, i progetti, le bozze, le pubblicazioni, le lettere, perciò anche l’archivio. 

GIUSEPPE: Ovviamente collezioniamo soprattutto arte concettuale, di guerriglia, di ricerca, di protesta, di non asservimento al mercato e alle piacevolezze da salotto. Tutta un’arte italiana tra anni ‘60 e‘70 il più possibile d’intelletto, piena di reliquie e feticci e vessilli di idee e combattimenti, con al centro un posto di privilegio riservato alla ricerca al femminile e ad un’ipotesi di reggenza matriarcale del mondo.

Quale aspetto del collezionare preferite: cercare, trovare o possedere?

GIANNI: In verità tutti e tre gli aspetti, ma al primo posto c’è la spinta della ricerca, che è veramente una caccia al tesoro. Per l’arte contemporanea il mondo, la terra, il suolo, le case, le gallerie, sono ancora isole del tesoro che custodiscono ricchezze sepolte. L’atteggiamento è proprio quello di un’avventura alla Stevenson, che segue principi anche fantastici, che provengono dai racconti di pirati della fanciullezza. Trovare e possedere sono solo le conseguenze e l’amministrazione di una fantasia iniziale.

GIUSEPPE: Sì, la cosa migliore è cercare, appartiene ad una particolare pratica d’insonnia: retri di gallerie, fondi di  librerie, testi, tracce d’amicizia, suggerimenti e incontri casuali, fortune, e l’idea che c’è ancora molto nascosto, perduto, trascurato, non studiato: si potrebbe dire che quasi tutto il Novecento è ancora da scoprire e che la caccia è realmente caccia al tesoro e decifrazione di mappe e topografie ancora sconosciute (c’è ad esempio una storia d’avanguardia della “provincia italiana” tutta ancora da fare e archiviare, fatta di gruppi clandestini, esperienze estreme, intransigenti, senza compromessi con poteri e amministrazioni ufficiali di cultura). E comunque una cosa trovata diviene desiderio esaudito e, soprattutto, monito a cercare più degni compagni alla collezione che cresce. La caccia è spesso, a tradimento, un’ispezione o verifica nei giardini del possesso dove non è dato riposare e che ad ogni svolta indicano nuove vie di fuga.

Come nasce il collezionismo di opere intellettuali?

GIANNI: Dallo studio, dalla ricerca, mai dall’idea di un affare.

GIUSEPPE: Dall’idolatria, da pratiche idolatriche: possedere la prima veste e apparizione di un libro amato, anche nella convinzione che la storia editoriale, l’avventura della copertina, della carta, dei risvolti, della fascetta, sono parte dell’avventura e della storia di quel testo, la sua incarnazione. Ad esempio la raccolta Garzanti delle Poesie di Sandro Penna con il “segnalibro” scritto da Pier Paolo Pasolini, o la prima edizione Einaudi del Giovane Holden con ancora, e mai più apparsa dopo, la foto- ritratto nel retrocopertina di Salinger, o tutte le edizioni e riedizioni delle opere di Elsa Morante, con ogni volta modificata e variata, per volontà dell’autrice, la nota biografica così da formare una leggenda e far perdere ogni traccia di sé. I prodigi e le avventure tipografiche sono infiniti, e qui non parliamo di dediche e interventi a mano (ho appena acquistato una edizione di Impromptu di Amelia Rosselli con correzione e varianti autografe di mano della Rosselli) o di pezzi unici di artisti (ad esempio possiedo alcuni libri di Munari fatti esclusivamente in copia unica per giocare e fantasticare con il proprio nipotino). Certo l’idea finale è quella del tesoro e del prestigio di aver ripristinato il tempo e l’emozione.

Quale è stato il primo acquisto per il puro piacere del possesso? 

GIANNI: Una Rovina di Piranesi.

GIUSEPPE: Un Capriccio di Goya.

Il libro “introvabile” che è entrato in collezione? Come, quando?

GIANNI: Lo spartito con la musica del Nabucco di Verdi suonata dal pianista di Kounellis nel 1970 a “Vitalità del negativo”, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, nella mostra un musicista suonava al pianoforte un frammento tratto dal Nabucco e leggeva la musica da uno spartito aperto sul leggio. Kounellis aveva segnato le battute esatte da suonare e aveva inserito una specie di simbolo di ritornello affinché il brano fosse suonato ogni volta “da capo” in modo perpetuo. Quello spartito è in nostro possesso.

GIUSEPPE: Il catalogo di Gino De Dominicis del 1970 edito dall’Attico, unico suo catalogo (ma in realtà libro-opera con all’interno progetti, dichiarazioni, assunti, idee originali), che De Dominicis ha passato gli anni seguenti a distruggere, rintracciando tutte le copie in circolazione. Al momento mi risulta esistente solo un’altra copia, oltre a quella nostra.

Quello che non è entrato in collezione perché “introvabile”. Quello con la storia più curiosa da raccontare?

GIANNI:  Un libro introvabile è ovviamente il libro che ingoia l’apostolo Giovanni dell’Apocalisse. Gli viene dato un libro da mangiare e lui lo inghiotte. Ricordo che ne parlavo con Mirella Bentivoglio, a proposito del Libro Alfa, ossia il Libro pane che aveva realizzato nel 1978 insieme a Maria Lai e che, come un’eucarestia, doveva essere un libro da mangiare. In verità, anziché divenire un libro di comunione e di condivisione, quello divenne per loro il libro della discordia, perché, mi raccontava Mirella, in successive esposizioni la Lai se ne era interamente appropriata e lo attribuiva solo a se stessa. 

GIUSEPPE: Un libro di Pier Paolo Pasolini, l’antologia tascabile della Garzanti del 1970, niente di che a livello bibliofilo, se non fosse per una dedica autografa in prima pagina di Pasolini a Dario Bellezza, enigmatica e segreta, bellissima e testamentaria, sfuggitomi di sotto al naso per un soffio, non ero riuscito ad acquistarlo perché qualcuno era passato prima di me portandoselo via come un trofeo e scomparendo. Ne ho avuto rimpianto e vagheggiamento per mesi, incolpando l’essermi fermato prima in un’altra libreria senza sorprese, e sapendola una perdita irrimediabile: fino a che non lo ricevo, come dono per me, da un caro amico, Andrea Galli, grandissimo libraio di Rimini, che l’aveva preso in gran fretta proprio con il pensiero di farmene sorprendente offerta. Strano, mi era stato sottratto per amicizia e per delicatezza, provocandomi una pena non d’amico! Ovviamente la dedica non l’ho ancora mai resa pubblica e mostrata ad alcuno: il suo segreto è sigillo di tutto questo sogno. Ma in verità sono tante le perdite e gli errori, ma le più gravi, nel collezionismo, sono spesso ricompensate dall’ammirazione per il collezionare. Ad esempio ho sempre presente un libro, splendido, di Richard Tuttle, proveniente dalla Galleria di Ugo Ferranti, con ogni foglio recante, fatta a mano, una pennellata come un colpo d’ala, e che ho indugiato a prendere, pagando l’indugio, la prudenza, il tergiversare, con la perdita. Lo ha acquistato immediatamente, senza pensarci, Christoph Schifferli, e sono contento (se ci si può dire contenti in questi casi) perché modello per me supremo, per sguardo, di collezionista di libri d’artista. Scuola svizzera, imbattibile, come quella tedesca di Max Renkel, per intenderci, quest’ultimo una specie di cane da caccia con un fiuto strepitoso e che mi ha sottratto diversi tesori: nell’ultimo anno ha intercettato un libro di Gerhard Richter (titolo e riferimenti anche qui non si possono dare) da perdere il sonno. Possiede alcuni prodigi editoriali di Lothar Baumgarten, e la sua collezione, i suoi cassetti quando li apre, sono una specie di Eldorado (a volte mi reco da lui solo per la consolazione di guardare e misurare la luce della sua raccolta).

Quello il cui possesso riempie di orgoglio?

GIANNI: Una sorta di manualetto di istruzioni di Giulio Paolini degli anni ’70 per un gallerista, con l’elenco dei materiali e dei pezzi da comperare, con le misure e la mappa della disposizione di ogni parte di un’installazione che il gallerista doveva montare a distanza (Paolini scrive da Torino e il gallerista è a Roma).

GIUSEPPE: Un’agenda personale di Mario Schifano con appunti, frasi, disegni, idee, progetti, pro-memoria, scarabocchi, indirizzi, appuntamenti, numeri di telefono, parole, slogan: la registrazione di un anno in presa diretta e incandescente giorno per giorno. Devo dire che come libro e oggetto ha qualcosa di incredibile: ogni pagina una sorpresa e un’intimità.

Dove andate a cercarli?

GIUSEPPE: Molte delle ricerche avvengono in robivecchi, rigattieri, svuotacantine, in zone di scarico e dismissione, in magazzini, nella vasta e maldestra gestione degli eredi e della morte, dei lasciti, degli scasamenti, della fretta e dell’inesperienza o trascuratezza dei parenti: ideale è quando si può accedere a case prima dello sgombero o dell’inventario, come sciacalli o corvi in veste di appassionati.

È possibile vedere la collezione di libri?

GIUSEPPE: Non facile, perché non facile mostrare libri, se non una selezione che già trovi un suo valore nelle copertine, né è ipotizzabile che siano sfogliati o presi in mano: può parere strano, ma il collezionista stesso è il più maldestro e spesso l’emozione è attestata dagli strappi che causa: il collezionista, il possessore, è il primo pericolo per il libro. E poi per chi colleziona libri c’è il capitolo straordinario e magico del profumo dei fogli e delle colle, dell’odore del volume (un grande lettore lo si riconosce perché tra le prime azioni che compie con un libro c’è quella di portalo al naso e odorarlo). Resta una collezione inevitabilmente segreta, intima e alla radice votata a restare suggellata.

Gianni Garrera  è filologo musicale e traduttore teatrale, curatore delle opere estetiche di Kierkegaard per i ‘Classici del Pensiero’ BUR e della nuova edizione dei Diari di Kierkegaard per Morcelliana; di prossima uscita, sempre per Morcelliana: Søren Kierkegaard, Rivelazione divina e genialità. Insegna “Estetica teatrale” presso la Scuola di teatro del teatro nazionale Mercadante di Napoli.

Giuseppe Garrera è musicologo, storico dell’arte e collezionista, coordinatore scientifico del Master in Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali della Business School del Sole 24 Ore di Roma.